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Di: Lavoro&Welfare di giovedì 20 settembre 2012 15:32

La Fiat e il futuro dell’auto in Italia

di Claudio Chiarle - Segretario Generale FIM-CISL Torino

La discussione su Fiat e il futuro dell’auto in Italia mi sembra che si svolga tra persone senza memoria.

Proviamo a ripercorrere alcune tappe.

All’inizio degli anni duemila ci fu una forte crisi dell’auto e il gruppo dirigente di allora pensò che fosse buona cosa un’alleanza con GM. Alleanza che si rivelò infruttuosa per Fiat e che Marchionne, giunto nel frattempo al comando di Fiat superò brillantemente. Tutti allora plaudirono al Marchionne “quasi socialista”. Sarebbe curioso riprendere le dichiarazioni di Bertinotti e di esponenti locali e nazionali della Fiom.

La stessa azione sindacale unitaria, di allora, permise, con il contributo fattivo del Comune di Torino di superare la crisi dando un contributo notevole, anche economico, a Fiat.

La crisi prima finanziaria, poi economica e infine industriale, diventata evidente nel 2008, che si muove con un percorso a “doppia V“ è diventata recrudescente dal 2010 in avanti colpendo, in Europa anche l’auto.

La Fiat si apprestava a percorrere il viale del tramonto, destinata all’oblio e al fallimento, se Marchionne non avesse saputo, da esperto uomo di finanza, varare l’operazione salvataggio Chrysler con i soldi del Governo USA e le tecnologie Fiat (motori e piattaforme) e la professionalità degli Ingegneri Fiat (conoscenza e sapienza intellettiva e progettuale).

Oggi, è vero, il cuore pulsante di Fiat-Chrysler è a Detroit per il semplice motivo che i mercati trainanti sono nello spicchio americano (Nord e Sud).

Se smettessimo, da ottimi provinciali, di pensare Fiat come un’azienda famigliare (quanti appelli si leggono “alla famiglia” “alle radici” e non al primo azionista!) ma come una multinazionale che sta agendo come tutte le multinazionali, ovvero se uno “spicchio del mondo” va male ma comunque si ritiene di stare sul quel mercato, il resto dell’azienda lo sostiene anche se è in perdita.

Questa strategia è una scelta normale è obbligata per ogni multinazionale, perché per Fiat diventa oggetto di lacerante dibattito?

Lo stesso discorso vale per la sede legale di Fiat e nessuno ricorda per quanto tempo Fiat mantenne la sede legale in Lussemburgo.

La tesi, già accennata, per cui ci saranno, anzi, ci sono, perché l’organigramma è già stato definito e Gianni Coda è il responsabile per l’Europa, quattro zone di mercato a livello mondiale: 1) Il Nord America, 2) il Sud America, 3) l’Europa con Russia e Turchia, 4) L’oriente (Cina e India) e ogni “spicchio” avrà una sua testa pensante e operativa che poi risponderà ad unico CEO non è, di nuovo, una novità organizzativa inventata da Fiat ma normale di ogni multinazionale. E poi, probabilmente, insedierà la sua sede legale laddove ci sia un Paese che gli consenta una più “libera” gestione fiscale.

Ora, invece, la discussione intorno al futuro della Fiat in Italia è andato oltre il perimetro dell’auto coinvolgendo imprenditori, banche, controlli societari, opinionisti e qualche sindacalista, che stanno attaccando Fiat sulla base di interessi di parte non riguardanti l’auto e il destino di migliaia di lavoratori. Tutti costoro sono i più accaniti sostenitori della vendita di Alfa Romeo per avere un secondo costruttore di auto in Italia. Ma un secondo costruttore deve essere aggiuntivo e non sostitutivo di Fiat, sennò trasleremmo solamente i cassaintegrati da Fiat trasformandoli in esuberi veri e propri.

Con la vendita di Alfa Romeo avremmo automaticamente la chiusura di uno stabilimento, Cassino o Mirafiori, perché la MiTo, ormai unico modello per Torino, si produce a Mirafiori e la Giulietta a Cassino.

L’acquirente o trasferisce tutto a Cassino e chiude Mirafiori o viceversa chiude Cassino e trasferisce la Giulietta a Mirafiori, oppure li chiude tutte e due trasferendo le attività in un sito non Fiat.

Il risultato sarebbe solo uno: migliaia di lavoratori Fiat in esubero. Oggi abbiamo dei cassaintegrati e non degli esuberi e la differenza è molta.  Per questo ritengo la vendita di Alfa Romeo dannosa per i lavoratori e per le strategie Fiat. Chi sostiene questa tesi, imprenditore, sindacalista, opinionista o politico che sia, lavora per creare disoccupazione anziché sostenere una politica industriale sull’auto in Italia.

Per quanto riguarda il Governo è di fronte ad un bivio, deve decidere se essere protagonista e creatore di un dramma sociale e industriale oppure gestire una crisi e porre le condizioni del rilancio. Il Governo Monti deve decidere se finanziare gli ammortizzatori sociali, compresa la cassa in deroga e visto le storture di utilizzo della stessa, forse sarebbe meglio concederla  all’unica impresa che investe in Italia. L’alternativa è dare il via libera alla chiusura di stabilimenti Fiat.

Ma non esiste solo la cassa in deroga, occorre che il Governo finanzi la completa copertura, sino all’80%, dei Contratti di Solidarietà. A fronte di una crisi ormai quadriennale e di cui non si vede l’uscita occorre rilanciare strumenti di solidarietà e di riduzione degli orari, tra i lavoratori, che permettano una migliore tutela del salario e mantengano i seppur bassi livelli produttivi senza chiudere però impianti e attendendo la ripresa. D’altra parte  l’esperienza ex Bertone insegna, dopo oltre sei anni di ammortizzatori sociali lo stabilimento è ritornato a vivere grazie alla tenacia del Sindacato e dei lavoratori e da settembre vedremo uscire i primi modelli di Maserati.

Certo è che l’uscita dalla crisi potrebbe essere anticipata o attenuata se la Fiat, dopo avere affinato i processi produttivi per essere competitiva, mettesse in campo, pur in tempi di crisi del mercato, nuovi modelli.

Questa scelta strategica si sta rilevando inopportuna, soprattutto nel caso di Mirafiori, dove i modelli previsti sono destinati prevalentemente al mercato USA. Se non parte subito l’investimento si rischia di essere pronti con i modelli quando il mercato USA  rallenterà (previsione fra quattro anni) e noi saremo di nuovo disallineati tra potenzialità di mercato e produzione di nuovi modelli.

Altra contestazione a Marchionne deriva dal suo sostenere che il denaro in Italia costa troppo (circa 8%) ma quando ha chiesto il prestito alle banche USA (e forse è questo il “peccato” che molti, in Italia, non gli perdonano), per salvare Chrysler il tasso d’interesse era ben più alto (tasso da usura lo definì Marchionne). A Pomigliano e  a Grugliasco, comunque, l’investimento si è fatto e quindi non mi pare che l’ostacolo vero sia il costo del denaro per un’azienda con forte liquidità e che “va bene” come dice ElKann.

E non è nemmeno vero che gli investimenti Marchionne li ha fatti con i denari di Fiat. Ovunque ha costruito impianti, anche gli attuali e a divenire, vedi pernambuco in Brasile, come in Serbia e in Usa, i governi sono intervenuti pesantemente con sostegni economici e agevolazioni.

Concludendo mi pare che Marchionne non sia immune da contraddizioni e anche il Sindacato, soprattutto noi firmatari, dovremmo richiamarlo ad una maggiore responsabilità e coerenza. Il Governo è assente non perché non ha soldi ma perché non ha idee di politica industriale e io ritengo che si debba evitare assolutamente chiusure di stabilimenti e se ciò accadesse sarebbe responsabile anche il Governo e se ciò avverrà credo che i Sindacati firmatari debbano dire a Fiat che anche il CCSL firmato ha perso il suo significato e valore politico e sindacale.

 

 

 

 

 

 

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