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Di: Lavoro&Welfare di mercoledì 18 luglio 2012 15:06

Riforma del lavoro – La nota di Nunzio Leone

Dopo un sofferto e travagliato iter parlamentare è divenuta legge la c.d. riforma Fornero  sul mercato del lavoro.

E’ la legge n. 92 ed è stata pubblicata sul supplemento ordinario n. 153 alla “Gazzetta Ufficiale” del 3 luglio 2012 n. 153 e reca un titolo impegnativo“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

Attorno alla legge, durante il suo percorso parlamentare, è stato detto e scritto, vuoi sotto il profilo politico-sociale, vuoi sotto il profilo giuridico - normativo.

Non esprimerò giudizi, ma intendo fornire ai nostri lettori qualche chiave di lettura e di interpretazione della legge.

Essa si compone di 4 articoli.

Il primo reca il titolo “Disposizioni generali, tipologie contrattuali e disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore” e si articola in 69 commi.

Il secondo è rubricato “Ammortizzatori sociali e si compone di 73 commi.

Il terzo è dedicato alle “Tutele in costanza di rapporto di lavoro” e si compone di 49 commi.

L’articolo 4 ha per rubrica ”Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro” e si snoda in 79 commi.

Nell’art. 1 sono contenute misure volte a raggiungere l’obiettivo di fornire idonee strumentazioni per la contrastare gli abusi nell’uso delle forme di lavoro flessibile e di orientare e favorire la loro trasformazione in contratti stabili, dal momento che la norma riafferma, al primo comma dell’art.1 “il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto contratto dominante, quale forma comune di rapporto di lavoro” .

Quindi per i contratti a termine, viene contemplata l’esclusione dell’obbligo di indicare una causale per il primo contratto tra le stesse parti di durata non superiore ai 12 mesi oppure per i casi consentiti dalla contrattazione collettiva, nei limiti del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva.

Le stesse disposizioni vengono estese per i contratti di somministrazione. La norma prevede la dilatazione temporale  dell’intervallo minimo tra un contratto e l’altro (da 10 o 20 giorni, a seconda che il primo contratto abbia avuto durata superiore o inferiore a 6 mesi, si passa a 60 o 90 giorni), il prolungamento del periodo di possibile prosecuzione oltre la scadenza ( da 20 a 30 giorni per i contratti sino a 6 mesi, da 30 a 50 negli altri), inclusione delle somministrazioni nel conteggio dei 36 mesi di durata massima di rapporti a termine tra le stesse parti, il prolungamento, da 60 a 120 giorni, del termine per l’impugnazione, l’incremento del costo contributivo dell’1,4%.

Se la stipulazione è acausale, viene favorita una corretta flessibilità in entrata? Vedremo alla prova dei fatti, anche alla luce della recente esperienza giudiziale sui contratti a termine, sulla tenuta  dell’acausalità. Essa incontra un autorevole supporto anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.

Per quanto afferisce ai contratti a progetto, la legge 92 pone limiti circa la sua ammissibilità per i contratti che rivestano mansioni “esecutive o ripetitive”, viene posto un sostanziale irrigidimento della nozione di “progetto”, che dovrà essere funzionalmente collegato ad un risultato finale, si accentua l’ esclusione del “programma”, viene posto  il divieto di recesso anticipato, affermandosi la presunzione semplice di subordinazione (se l’attività commissionata coincide con le mansioni dei dipendenti) nonché la presunzione assoluta, in mancanza di progetto. Non siamo di fronte ad una tipologia contrattuale incentiva o consigliata. Tutt’altro.

Attraverso il ricorso alle presunzioni, viene disincentivata una larga fascia di possibilità di ricorso al lavoro autonomo.

E per quanto attiene il corrispettivo minimo, dobbiamo fare riferimento al principio costituzionale. Inoltre la riforma del MdL precisa che  l’iscrizione in albi professionali esclude dall’ambito di applicazione della disciplina sul lavoro a progetto solo se il contenuto concreto della collaborazione sia riconducibile alle attività professionali per le quali è necessaria l’iscrizione a tali albi.

Il fronte delle “partite IVA”, registra una forte limitazione, nel senso che vi è presunzione di collaborazione coordinata e continuativa, con conseguente applicazione del contratti a progetto, per i rapporti di durata di oltre 8 mesi, per quelli in regime di sostanziale monocommittenza (oltre l’ 80% dei corrispettivi dallo stesso soggetto) anche allorquando il collaboratore disponga di una posto di lavoro, una postazione stabile presso il committente.

Tale presunzione divine operativa allorquando siano presenti almeno due dei presupposti, mentre  non opera per le professionalità elevate o per chi abbia un reddito professionale superiore ai 18.000 euro.

Siamo di fronte ad un riconoscimento di un ruolo delle  partite IVA. Nel senso che essi assumono una rilevanza che va oltre i limiti della normativa fiscale, per entrare in quella lavoristica, consente  sicuramente uno spazio di utilizzo superiore a quello del contratto a progetto e che darà molto lavoro all’attività degli organi ispettivi.

Ci sono degli  sgravi contributivi per i contratti di inserimento degli ultracinquantenni, disoccupati da almeno 12 mesi; una revisione dell’apprendistato, con un meccanismo che ne subordina l’utilizzo alla parziale stabilizzazione dei precedenti assunti (come accadeva per i CFL); l’obbligo di comunicazione amministrativa preventiva, per il lavoro a chiamata e i part-time verticali e misti; per questi ultimi, facoltà unilaterale di ripensamento, a favore del lavoratore, per “rilevanti motivi personali”; misure correttive per il lavoro accessorio e gli stage; delimitazione dell’associazione in partecipazione ad un numero di associati non superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo.

 

C’è poi una parte rilevante della legge 92 che riguarda la disciplina dei licenziamenti individuali. Nessuna differenza nelle ipotesi di licenziamenti discriminatori, compresi quelli nei periodi di maternità e matrimonio, a prescindere dalle dimensioni del datore, nel senso che sussiste la reintegrazione e il pagamento delle retribuzioni perdute.

In tema di licenziamenti disciplinari vengono contemplati tre diverse tipologie e la reintegrazione viene tipizzata soltanto quando l’illegittimità dipende da ragioni sostanziali, vale a dire l’inesistenza dell’addebito o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva o dei codici disciplinari applicabili.

In tal caso il lavoratore ha diritto alla reintegrazione, ma il risarcimento è limitato a 12 mensilità, detratto l’aliunde perceptum nonché, ed è un’evidente innovazione, quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire ove si fosse dedicato diligentemente a ricercare una nuova occupazione. Tale regime si applica anche per i licenziamenti basati sull’asserita inidoneità psichica o fisica del lavoratore o a quelli intimati in violazione dell’art. 2110 cod. civ..

L’elemento su cui l’attenzione è alta è quello del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che viene rinominato “economico”, anche se la fattispecie non richiede necessariamente un’esigenza di contenimento dei costi.

In tale ipotesi è esclusa la reintegrazione, spettando al lavoratore, in ipotesi di accertata insussistenza della motivazione, solamente un indennizzo tra 12 e 24 mensilità.

Grande ruolo viene affidato al giudice al quale è rimessa la possibilità di applicare la sanzione della reintegrazione nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza della circostanza che ha generato il licenziamento. Per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la legge prevede anche l’introduzione di una sorta di tentativo di conciliazione preventivo, una sorta di passaggio nel quale ricercare soluzioni conciliative, incoraggiate dalla circostanza che le risoluzioni consensuali raggiunte in tale sede danno diritto ai lavoratori allo stesso trattamento di sostegno al reddito conseguente al licenziamento.

La nuova normativa sui licenziamenti è un elemento di novità che si potrebbe racchiudere nello spirito “ce lo chiede l’Europa”. In realtà esso è  un passo in avanti sulla strada della  visione del licenziamento e delle conseguenze derivanti da una sua eventuale illegittimità più aderente alle esigenze dell’attuale mercato, globalizzato, economico e del lavoro, e avendo definitivamente creato un vulnus al principio della reintegrazione generalizzata.

Ci sarà un nuovo eroe, il giudice, che gestirà una grande discrezionalità e pertanto molto potrà essere ricondotto alla possibilità di riportare le singole fattispecie all’interno dell’area della reintegrazione.

In tema di licenziamenti collettivi, la legge n.92/12 introduce alcune opportune precisazioni circa l’irrilevanza di alcuni profili di carattere formale ( mancato invio della comunicazione ai sindacati e agli organi pubblici delle modalità di applicazione dei criteri di scelta nella stessa giorno di invio delle lettere di licenziamento) ai fini della legittimità del recesso e sull’efficacia sanante degli accordi sindacali di fine procedura in relazione ad eventuali mancanze di carattere formale riscontrate nelle procedura medesima.

Gli altri aspetti, cioè la procedura e i criteri di scelta rimangono immutati, con l’importante differenza, tra i due aspetti, rappresentata dal fatto che la violazione delle procedure comporta una sanzione di carattere meramente risarcitorio, mentre alla violazione dei criteri di scelta consegue la reintegrazione.

C’è poi l’introduzione di un procedimento sommario dedicato ai giudizi di impugnazione dei licenziamenti.

Esigenza certamente non avvertita, dal momento che il rito del lavoro dispone di una modalità adeguata a fronteggiare le cause in tale delicata materia e che le criticità  che si riscontrano al riguardo dipendono principalmente dagli organici e dai problemi di “produttività” delle Corti decidenti.

C’è poi la parte relativa all’ASPI, la riforma degli ammortizzatori sociali. Viene introdotta l’assicurazione sociale per l’impiego, l’ASPI appunto, che dovrà sostituire, con carattere universale, le vigenti indennità di disoccupazione e di mobilità, con una durata da 12 a 18 mesi, conservando l’attuale massimale dell’indennità di disoccupazione (€ 1.119,32). I lavoratori parasubordinati non dovrebbero beneficiarne.

La cassa integrazione straordinaria (CIGS) è esclusa nei casi in cui non è prevista la conservazione del posto di lavoro (cessazione di attività).

Viene contemplata la istituzione di fondi di solidarietà per estendere gli ammortizzatori ai settori attualmente non coperti dalla CIGS (per cui negli ultimi anni si è fatto ricorso alla “cassa in deroga”) e l’estensione del regime della CIGS negli ambiti per cui, sino ad oggi, si è proceduto ad estensioni annuali con decreto ministeriale (agenzie di viaggio e vigilanza, imprese del commercio con più di 50 dipendenti).

Vengono introdotte misure per favorire l’esodo incentivato dei lavoratori a cui mancano fino a 4 anni per il raggiungimento dei requisiti pensionistici, che peraltro, com’è noto, ora sono più elevati rispetto a quelli antecedenti alla riforma delle pensioni avvenuta nel dicembre dello scorso anno.

Poi ci sono alcune misure idonee a favorire le pari opportunità, ad esempio la reintroduzione di formalità per le dimissioni rassegnate nei primi tre anni di vita del bambino (sulla falsa riga dell’abrogata l. 188/2007).

Ancora il n congedo di paternità obbligatorio, pari a tre giorni continuativi, di cui usufruire entro i primi 5 mesi di vita del bambino.

Vengono introdotte maggiori rigidità e più intensi controlli in materia di rispetto delle quote di riserva per i disabili, la legge n.68, nota come legge Battafarano.

Vi è poi il diritto alla conservazione del permesso di soggiorno, a favore di immigrati licenziati, finché godono di una prestazione di sostegno al reddito per disoccupazione.

Poi ci sono interessanti norme in materia di tirocinio, che entro 6 mesi verranno disciplinate in sede di Conferenza Stato Regioni.

E poi il progetto di intervento sugli strumenti di politica attiva del lavoro e la disciplina dei servizi per l’impiego.

Adesso si apre lo scenario della gestione della legge e della sua lettura critica, comprensione e pratica attuazione.

Noi faremo il nostro ruolo.

 

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