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Di: Lavoro&Welfare di lunedì 24 giugno 2013 13:42

I ragazzi di Gezi e l’articolo 18: la battaglia turca per i diritti sindacali

di Gabriele Moccia

I media preferiscono concentrarsi sugli aspetti più spettacolari, ma uno dei veri nodi delle imponenti manifestazioni di piazza è legato ad una feroce battaglia sui temi del diritto del lavoro.  Tra le barricate di piazza Taksim, da qualche settimana, si sono aggiunte anche le compassate hostess della Turkish Airlines, una delle compagnie aree più grandi del mondo, il simbolo dei successi internazionali del premier Erdogan. A fine maggio la compagnia ne ha licenziate in tronco trecento, dopo una protesta sindacale per orari e salari.  Un tribunale di Istanbul ha chiesto il reinserimento ma le hostess non lo otterranno perché Erdogan, alla fine dello scorso anno, riscrivendo la legge sui sindacati e i contratti collettivi, ha abolito il diritto al reintegro.  La nuova normativa - plasmata prevalentemente dalle organizzazioni datoriali come la potentissima Organizzazione degli industriali turchi (Tusiad), molto vicina ad Erdogan – offre pochissime tutele reali per i lavoratori. Anzi, secondo molti analisti, sotto certi aspetti fondamentali, come il diritto alla contrattazione collettiva per i nuovi sindacati, le sanzioni legate alle pratiche di gestione dei contratti e le restrizioni sugli scioperi, questa nuova legge sarebbe addirittura peggiore della precedente, quella del 1983, istituita dal regime dei generali tanto per intenderci.  Nel campo della contrattazione, Erdogan ha ridotto i settori escludendo molti sindacati indipendenti. Nel settore pubblico, dove la contrattazione collettiva era illegale fino al 1995, la situazione non è migliore. Il partito che governa il Paese, l’Akp ha cercato di sopprimere i sindacati indipendenti e sostituirli con quelli controllati dal governo. Negli ultimi tre anni, il numero dei tesserati ad uno dei principali sindacati della funzione pubblica, il Kesk, si è ridotta dell’8 per cento, mentre l’appartenenza al sindacato filo-governativo , il Memur-Sen, è aumentata del 15 per cento. Il risultato? Il tasso di presenza dei sindacati nel mondo del lavoro turco è oggi il più basso di tutta l’area Ocse, sotto il 6 per cento nel lavor pubblico e sotto il 3,5 per cento in quello privato. Dietro queste cifre, denuncia l’Ocse, ci sono le classiche vicende di sfruttamento: ricorso spropositato al subappalto, che colpisce 1 milione di lavoratori turchi, utilizzo dei contratti di lavoro flessibili e bassi salari. Proprio sui salari, il dato è chiaro; sempre secondo i dati Ocse, circa la metà della popolazione attiva guadagna cifre attorno al salario minimo, 978 Lire turche (circa 521 dollari) al mese, uno stipendio che viene considerato dalle statistiche significativamente al di sotto di un adeguato salario di sussistenza nell’area Ue. Ecco, dunque, che la battaglia per evitare che ad Istanbul venga costruita una delle più grandi moschee del mondo, sancendo il carattere islamista del progetto politico di Erdogan, si è progressivamente saldata con quelli che sono i veri punti lasciati scoperti dal successo del premier turco. Una crescita economica fortissima, l’ingresso nel club del g-20, la capacità di influenzare la politica regionale, il percorso di adesione europeo. Tutto questo a scapito di un pericoloso regresso nel campo dei diritti. Ecco perché la protesta dei giovani si è facilmente saldata con quella dei sindacati. Arzu Çerkezoglu, segretaria generale della Confederazione dei sindacati dei lavoratori progressisti (Disk), ha dichiarato di essere intenzionata a portare avanti la sua battaglia ad oltranza. “Si dice che l’economia cresce, ma se le condizioni di vita non migliorano per tutti non si può parlare di vera crescita” ha affermato la segretaria che ha poi ricordato, “la scorsa settimana si è tenuta una conferenza a Ginevra dell’Ilo e per l'ennesima volta è emerso come la Turchia sia la pecora nera d'Europa per quanto riguarda i diritti sindacali”. Insomma, il Paese sembra essere arrivato ad un punto di svolta dove molto dipenderà dalla capacità del Governo di abbandonare la linea dura e aprire su temi cruciali anche nel rapporto con l’Unione Europea.

 

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