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Di: Lavoro&Welfare di venerdì 3 ottobre 2014 14:34

JOBS ACT, MERCATO DEL LAVORO ITALIANO E MODELLO TEDESCO

di Luigi  Sbarra (Segretario Confederale CISL)



La riforma Hartz che in Germania,  a distanza di un decennio, ha contribuito a ridurre i disoccupati di oltre due milioni, con un tasso di disoccupazione ai livelli  minimi nel mezzo della peggior crisi dell’area euro, si basa su una serie di strumenti:  sussidi di disoccupazione estesi a tutti, purché si dimostri di essere alla ricerca attiva di lavoro;  un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver completato gli studi, con contributi per la casa, la famiglia e i figli; un sistema di politiche attive efficiente basato su centri pubblici che competono alla pari con le  agenzie private e su  voucher formativi; i Minijobs e Midjobs, contratti di lavoro poco tassati, senza diritto a pensione né assicurazione sanitaria, pagati al massimo 400 euro; i finanziamenti a microimprese autonome. Va però sottolineato che tale riforma si è venuta ad innestare su  un   sistema di istruzione e formazione di altissimo livello, da sempre in stretto contato con il mondo dell’impresa,  un radicato sistema di partecipazione e un sistema efficace di tutela dei licenziamenti illegittimi.  Questo modello, come qualunque altro, funziona solo se preso nel suo insieme.

La flessibilità in entrata e in uscita

Per quanto riguarda l’Italia, nel disegno di legge governativo “Jobs Act” , dichiaratamente ispirato al modello tedesco,  il punto centrale dell’art.4 sulle tipologie contrattuali  è  l’ introduzione del  contratto a tutele crescenti nell’ambito di una non meglio specificata semplificazione del panorama dei contratti di lavoro. Contemporaneamente si annuncia, nello stesso art.4, l’innalzamento del limite di reddito per i voucher, oggi pari a 2000 euro per un singolo imprenditore, scelta che strizza l’occhio ai mini jobs tedeschi.

Pur nella convinzione che non siano certo le regole che governano l’accesso al lavoro, dopo le frequenti riforme degli ultimi anni,   le sole responsabili delle molte  rigidità del sistema Italia, e che non ci si possa illudere che continuare a modificare tali regole possa avere effetti “miracolistici” sui livelli occupazionali,  la Cisl è disponibile al confronto, come è nella sua attitudine,  ma solo se ciò può contribuire a ridurre il tasso di precarietà nel nostro mercato del lavoro ed aumentare il tasso di occupazione.

 

In tale prospettiva, il contratto a tutele crescenti risulterà inefficace se resteranno in vigore tutte le attuali tipologie contrattuali.  Se il nuovo contratto sarà solo  una tipologia aggiuntiva, ed anzi ad essa si accompagnerà un maggiore utilizzo del lavoro con voucher nella direzione dei mini jobs, allora la scelta appare poco comprensibile, in quanto continueremo ad avere a che fare con tipologie contrattuali  in concorrenza tra loro al ribasso, con flessibilità “cattive” che continueranno a fagocitare  flessibilità “buone”, con buona pace del “decreto Poletti” che aveva appena potenziato il contratto a termine e l’apprendistato ripulendo quest’ultimo  anche da qualche farraginoso eccesso che ne aveva finora determinato il non sufficiente ‘appeal’ . Lo stesso contratto di apprendistato, in particolare, rischia di restare del tutto penalizzato se il nuovo contratto si applicherà a tutti i nuovi assunti.

 

Recuperando  lo spirito originario del Jobs Act,  occorre dunque precisare quali siano le tipologie contrattuali che,  per la breve durata o la bassa contribuzione o la scarsità di tutele, il nuovo contratto andrà a sostituire; d’altro lato si pone il problema di  come  rafforzare le norme di contrasto agli abusi, in particolare quelli legati all’utilizzo di lavoro parasubordinato ed autonomo in sostituzione di lavoro dipendente ( false partite Iva, cocopro, associati in partecipazione)  dove si annida la precarietà.

 

Nel contempo occorrerà chiarire che le tutele crescenti si riferiscono alla applicazione dell’art.18 per i licenziamenti economici dopo una fase iniziale durante la quale esso non verrebbe applicato e sarebbe sostituto dal solo indennizzo, che però dovrà essere maggiorato rispetto all’attuale.

Invece, puntare a eliminare del tutto la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo non ci avvicina al modello tedesco.  In Germania il licenziamento va giustificato per tutte  le imprese con più di 10 dipendenti ed il datore di lavoro prima di intimare qualsiasi licenziamento deve consultare il consiglio di fabbrica , che  ha il potere di sospendere o annullare il licenziamento. Il lavoratore ha addirittura il diritto di mantenere il posto di lavoro sino alla fine della controversia giudiziaria. L’ordine di reintegra da parte del giudice è molto frequente, l'indennizzo in denaro è un eccezione, piuttosto che la regola.  E’ vero anche che il datore di lavoro  ha la possibilità di rifiutare la reintegra.  Ma la differenza sostanziale è che in Germania le controversie giudiziarie di lavoro durano poco, mentre in Italia bisogna attendere anni prima della sentenza definitiva.

La riforma Fornero è già  intervenuta, ed in maniera significativa, in quest’ambito,  sia eliminando quasi del tutto la reintegra per i licenziamenti economici, che resta solo nel caso di manifesta insussistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro, sia introducendo il rito processuale abbreviato. Sarebbe ragionevole monitorare gli esiti di questa riforma prima di avventurarsi in un’altra.

Infine, la reale alternativa ai minijobs, che in Germania hanno fatto aumentare i posti di lavoro ma anche la disparità, la precarietà e, per le donne, la dipendenza economica,  è una effettiva incentivazione del part-time, che stranamente nessuna riforma prende in considerazione, mentre basterebbe guardare non solo all’Olanda, che ha tassi di part-time vicini al 50%, ma ancora alla Germania, con il 27%, o alla Danimarca, alla Svezia, al Regno Unito, tutti paesi che, con tassi di part time superiori al 25%, mentre in Italia siamo al 15%,   hanno tassi di occupazione complessivi elevati e bassi tassi di inattività.

 

Gli ammortizzatori sociali

 

L’obiettivo, indicato dal Governo, di un sistema di tutela della disoccupazione a carattere universalistico, è da sempre anche l’obiettivo della Cisl. Corrisponde infatti ad una nostra richiesta   l’ estensione dell’Aspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Per completare il percorso di universalizzazione delle tutele in caso di disoccupazione vanno però considerati tutti  i lavoratori iscritti alla Gestione Separata Inps (ricomprendendo in tal modo anche i soggetti con Partita Iva), se rispondenti a caratteristiche di monocommittenza.

 

La Cassa integrazione, sia ordinaria che straordinaria, va mantenuta nella sua veste attuale, riconoscendo che essa non solo ha svolto, particolarmente in questi ultimi difficilissimi anni,  un ruolo fondamentale di tutela del reddito dei lavoratori, ma ha anche consentito alle imprese di conservare il capitale umano in attesa della ripresa.

In Germania imprese di qualsiasi dimensione e settore hanno diritto al sussidio pubblico per la settimana lavorativa ridotta nei casi in cui vi sia un forte calo della produzione. Si tratta del sistema del Kurzarbeit, finanziato dai contributi versati dai datori di lavoro e lavoratori.

Con il Jobs Act la Cassa integrazione va estesa ai settori e alle aziende sotto i 15 addetti oggi esclusi.  Se non vi saranno le condizioni per includere tutti nell’attuale sistema con i relativi obblighi contributivi, allora il Governo dovrà prevedere un sostegno pubblico ai Fondi bilaterali di solidarietà, che possono rappresentare al momento la via realisticamente più percorribile per raggiunger l’obiettivo,  e sono uno strumento particolarmente duttile perché  diversificati in base alle effettive esigenze dei singoli settori.

 

La vera svolta deve essere quella di inserire tutti i percettori di ammortizzatori in percorsi obbligatori di riqualificazione e ricollocazione.

 

Le politiche attive del lavoro ed il sistema di istruzione e formazione

 

Sulle questioni riguardanti i Servizi per l’Impiego il Jobs Act prefigura un impianto che in più di un punto, specialmente in quelli realmente possibili ed ‘innovativi’ disegna uno scenario più vicino a quello tedesco. La decisione da parte del Governo Italiano di dotarsi di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione infatti, ricorda molto negli obiettivi e nella ‘mission’ il percorso di costruzione dell’Agenzia Federale per l’Occupazione (BA) tedesca, che è una struttura autonoma di diritto pubblico, soggetta al controllo del Governo federale. Si struttura in una sede centrale a Norimberga, 10 direzioni regionali (per la realizzazione delle politiche del lavoro a livello locale, a stretto contatto con i Lander), 156 uffici locali che, solitamente presenti a livello di comune o distretto, gestiscono più sportelli arrivando così a un numero complessivo di 610 sportelli/uffici. Inoltre, sono presenti 304 “Job Centre”, che offrono servizi condivisi tra personale della BA e dei Comuni.

 

Anche la nostra Agenzia quindi dovrebbe avere un ruolo effettivo, non solo di Coordinamento regionale, con l’obiettivo di  superare il decentramento totale stabilito con la riforma del 1997, per avere omogeneità e coordinamento unico delle politiche del lavoro.

 

Non è però sufficiente modificare la “governance” del sistema, è anche  necessario avviare un percorso di potenziamento delle risorse finanziarie, umane e strumentali che renda possibile una effettiva funzionalità dei centri per l’impiego per la realizzazione di  politiche attive del lavoro fruibili in ogni area del Paese.

Il divario infatti tra noi e la Germania è difficilmente colmabile anche solo attraverso un confronto rispetto alle risorse: ogni anno l’investimento economico dei due Paesi rispetto ai SPI è di 8 miliardi e 870 milioni di € in Germania e di soli 500 milioni di € in Italia, questo fa si che il calcolo (molto indicativo) delle risorse annue a disposizione da poter investire su ogni lavoratore in cerca di occupazione sia di ben 1.800 € per un tedesco e di 80 € per un italiano. Ancor più desolante il quadro rappresentante la situazione delle risorse umane a disposizione, infatti nei c.ca 600 sportelli più gli oltre 300 ‘job centre’ dislocati nel territorio teutonico sono presenti, adeguatamente retribuiti, formati, dotati di strumenti, e collegati fra loro oltre 118.000 operatori, rispetto ai nostri 556 centri per l’impiego con poco più di 8.500 lavoratori spesso precari ed (in molti territori) poco conosciuti da imprese e lavoratori del territorio e troppo spesso privi di strumenti adeguati, a partire da un vero sistema informatico unico all’altezza del compito ed in grado di realizzare ovunque, per chiunque, in tempi rapidi e con grande efficienza l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Imbarazzante pensare al fatto che, in una quotidiana rappresentazione rispetto alle risorse umane a disposizione, l’operatore che dovrebbe accogliere per poi tentare di collocare i suoi ‘clienti’ nel centro per l’impiego, se tedesco ne vedrà 22 davanti al proprio sportello, se italiano oltre 400.

Ora, al di là dell’Agenzia Nazionale e di come sarà importante rispondere alle esigenze delle Regioni sul piano della gestione, anche alla luce della nuova attribuzione dei compiti istituzionali sul territorio, pensare di attuare una riforma dei SPI, realmente a costo zero appare davvero poco credibile.

Altro punto fondamentale sarà l’avvio di un dialogo sinergico-competitivo con le agenzie private necessario per stabilire obiettivi comuni anche attraverso l’erogazione di  premialità a risultato conseguito.

Apprezzabile sicuramente il coinvolgimento delle Parti Sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia, anche se bisognerà capire come e dove.

 

Rispetto al ‘capitolo’ formazione ed istruzione, il sistema tedesco appare (anche in virtù dei risultati e dei tempi di attivazione) sicuramente il più credibile ed efficace a livello non solo europeo. Il duales System tedesco, su cui poggia il loro contratto di apprendistao,  infatti individua da subito scuola ed azienda come i due ‘pilastri’ che insieme concorrono a costruire le basi per la crescita dei giovani dalla scuola al lavoro. Ma il sistema italiano (a parte qualche ‘best practice’ di rara fattura) non consente ancora purtroppo un rapporto davvero ‘sistemico’, basti pensare che in Germania ci sono già ben 344 ‘mestieri’ che vantano una formazione professionale riconosciuta e certificata a livello statale con percorsi di alternanza flessibile ed articolata, mentre da noi i due ‘pilastri’, università inclusa, sono ancora ben lontani dalla condizione di divenire ‘sistema’.

In tale contesto va previsto un fattivo coinvolgimento degli enti bilaterali e dei Fondi interprofessionali proprio per ottenere un’importante accelerazione del processo.

 

Il salario minimo

 

Si è fatto riferimento al modello tedesco anche per quanto riguarda il salario minimo recentemente introdotto in Germania, e che si vuole introdurre da noi con uno specifico punto della delega di cui al citato art.4 del Jobs Act.

 

La riformulazione del testo in seguito all’emendamento governativo, che ora fa riferimento ai soli settori non coperti dalla contrattazione collettiva ed inserisce i rapporti di collaborazione, sembra, pur con qualche ambiguità, rispondere ad alcune delle criticità che avevamo sollevato.

 

Resta il fatto che in Italia il sistema di salari minimi fissato dai CCNL, che copre circa l'80% dei lavoratori, è sicuramente migliore dei salari minimi di legge in quanto offre una soglia di garanzia decisamente più elevata ed è più aderente agli specifici contesti. Nei paesi europei dove esiste, il salario minimo di legge non supera il 50% del salario medio percepito dai lavoratori, contro l’80% in Italia.

Va, inoltre, ricordato che la Magistratura del lavoro ha sempre indicato nei minimi fissati dai CCNL il riferimento da adottare in tutti i casi di contenzioso derivati dall'applicazione di salari diversi.

 

La nostra proposta è quella di attribuire valore legale erga omnes ai minimi salariali fissati dai CCNL e valorizzare la contrattazione di secondo livello per promuovere la competitività delle imprese attraverso la definizione di obiettivi condivisi (salario di produttività, detassazione ecc.). Anche per i lavoratori parasubordinati dovrebbero essere le parti sociali a definire un sistema di minimi stabiliti a partire da un salario medio contrattuale.

 

 

La partecipazione

 

Una riflessione sul mercato del  lavoro italiano in relazione al modello tedesco non è completa senza un accenno al fiore all’occhiello del sistema di relazioni industriali di quel paese: la partecipazione dei lavoratori alla gestione di impresa.

Un sistema partecipativo di relazioni industriali è  un fattore decisivo per individuare e gestire, in rapporto alle specifiche esigenze e caratteristiche dei diversi contesti, soluzioni mirate, capaci di attivare innovazione, di perseguire efficienza, di valorizzare il lavoro come fattore strategico di competitività.

Le scelte compiute in Germania a partire dagli anni 50, hanno realizzato un sistema di partecipazione/codeterminazione basato sulla trasparenza delle strategie d’impresa, sul forte coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte. Un contesto simile genera  senso di responsabilità e  consapevolezza di dover assumere scelte anche  impopolari, se è necessario. Con un livello comune di conoscenza oggettiva dei contesti e dei problemi diventa più facile spostare il confronto negoziale sulla ricerca delle soluzioni utili per tutti piuttosto che inchiodarsi sullo scontro di natura ideologica.

 

E’ questo il momento, per il nostro paese, di avviare un sistema di partecipazione, con una legge che dia ampio spazio, per la sua attuazione,  alla contrattazione collettiva. Tutto ciò è rimasto, per ora, fuori dal disegno di legge governativo.  Auspichiamo che sia una delle prossime scelte del Governo e del Parlamento.

 

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