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Di: Lavoro&Welfare di venerdì 3 ottobre 2014 14:32

Germania – Italia

Riflessione di Guglielmo Loy – Segretario confederale UIL

All’inizio era il modello danese della flexicurity, quello che l’Italia avrebbe dovuto imitare. Oggi, pur senza abbandonare l’idea di quel modello, se ne aggiunge un altro: il modello tedesco.

Due modelli simili sul versante della liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso un forte utilizzo della flessibilità, ma con un forte ancoraggio ad un sistema universalistico di tutele sociali.

Modelli replicabili in Italia? Allo stato attuale, e attraverso continui interventi normativi alle tipologie di flessibilità in entrata, dei due modelli abbiamo importato solo la parte di più facile attuazione: la liberalizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro.

Oggi va di moda guardare alla grande Germania che ha ridotto drasticamente il tasso di disoccupazione, sembrerebbe, attraverso le 4 riforme Hartz realizzate tra il 2003 e 2005.

Così, mentre nel periodo più cruciale della crisi 2007-2013, la Germania riduceva dall’8,7% al 5,3% il suo tasso di disoccupazione, in Italia si verificava l’esatto contrario: dal 6,1% del 2007 al 12,2% del 2013.

Molti sostengono che la crescita dell’occupazione in questi 2 Paesi europei sia da attribuire interamente alle loro rforme del mercato del lavoro. Altri sostengono, invece, che ci siano anche motivi endogeni che hanno prodotto tali risultati positivi.

Prendiamo il caso della Germania, cioè dell’ultimo modello a cui l’attuale Governo italiano vorrebbe ispirarsi.

Dal punto di vista statistico, l’introduzione del pacchetto Hartz IV ha avuto l’effetto di ridurre il numero dei disoccupati. Ma c’è un però: i posti di lavoro creati non sempre consentono ai lavoratori di vivere dignitosamente. Così lo Stato è costratto ad intervenire con prestazioni assistenziali.

La maggior parte di occupazione che si è creata, ha riguardato principalmente settori a bassa retribuzione.

Inoltre è stato deregolamentato e liberalizzato il lavoro interinale, traducendosi in un aumento di occupazione . In Germania si può derogare all’obbligo (che fortunatamente vige in Italia) di parità di retribuzione. Ciò si è tradotto in un aumento del lavoro interinale a bassa retribuzione.

Anche in Germania, così come sta avvenendo in Italia, si possono stipulare contratti a tempo determinato privi di una motivazione. Il contratto a tempo determinato viene utilizzato soprattutto per i giovani senza esperienza. Così come in Italia, la possibilità di progressione di carriera e di formazione, sono molto basse.

E sempre in tema di strumenti per aumentare l’ccupazione, la Germania ha introdotto i c.d. mini jobs…l’ater ego dei nostri buoni lavoro (voucher).

Si tratta di contratti di lavoro che vedono una retribuzione mensile non superiore ai 450 euro con insufficienti tutele sociali per il lavoratore. La platea di lavoratori interessata dai mini jobs  è di 7,3 milioni di persone. Tale strumento viene utilizzato sia come unica attività lavorativa, sia come attività secondaria.

Nella maggior parte dei casi queste attività scarsamente retribuite, durano almeno 1 anno, e per il 10% dei lavoratori interessati, arriva anche fino ad 8 anni.

I mini jobs, come i nostri buoni lavoro, sono esenti da imposte ed i contributi versati dal datore di lavoro sono di importi bassi e forfettari, non consentendo di accedere alle prestazioni del sistema di sicurezza sociale. Non c’è un limite di ore di lavoro per il mini jobber, tranne il tetto dei 450 euro mensili. Ciò produce un “compenso personalizzato ed un orario di lavoro personalizzato”. Spesso, quindi, la retribuzione è più bassa delle retribuzioni previste dalla contrattazione collettiva di settore.

Esistono poi, i c.d. “lavori ad 1 euro l’ora” (fortunatamente come italia non ci siamo ancora arrivati, ma forse a forza di emulare i modelli stranieri, arriveremo anche a questo!).

A tutto ciò si deve aggiungere, logicamente, l’inserimento con tirocinio/stage non retribuito.

La consguenza ne è stata la contrazione dell’occupazione standard.. Un’occupazione a tempo pieno ed indeterminato che garantisca una retribuzione sufficiente a soddisfare le esigenze del lavoratore.

Accanto a tanta e tale flessibilità, il sistema tedesco, però ha 2 “buone pratiche” che mancano nei nostri modelli italiani di riforma del mercato del lavoro:

- un massiccio ed universale sistema di sussidi di disoccupazione. I disoccupati sono obbligati ad accettare qualsiasi lavoro venga loro proposto anche con basse retribuzioni, pena la progressiva perdita del sussidio.

- un forte investimento in politiche attive ed un efficiente sistema di servizi per il lavoro.

In Italia, si vorrebbe (il condizionale è d’obbligo!) riformare, ampliandone la durata ed il bacino di riferimento, l’attuale sistema di sostegno al reddito in caso di perdita di lavoro (Aspi e mini Aspi), ma non è chiaro con quali e quante risorse. Tale riforma non può certamente avvenire a costo zero! A nostro avviso sarebbe, comunque, sbagliato  mettere “in concorrenza” questo strumento con la Cassa Integrazione che sviluppa tutele diverse e per l’Italia protegge oltre 1.5 mln di lavoratori.

Inoltre, un problema da sempre presente nel nostro Paese, è la poca, e a volte, scarsa efficienza e diffusione dei nostri Servizi per l’Impiego. Ciò si è tradotto nella inevitabile sussidiarietà del sistema informale d’intermediazione, come conseguenza dello scarso investimento in risorse e capitale umano nei nostri Centri per l’impiego.

In Italia viene dedicato ai Centri per l’impiego lo 0,03% del Pil, a fronte di una media UE dello 0,25%.

Se si pensa che il rapporto tra operatore e utenti è di 1 ogni 230 (in Francia è di 1 ogni 70), si può comprendere l’ingestibilità e la difficile efficienza del servizio offerto. In Italia sono presenti 556 Centri per l’Impiego, con complessivi 8 mila operatori, a fronte dei 115 mila della Germania, Il tutto fa il paio con l’insufficiente investimento di risorse pari a 500 milioni di euro, a fronte dei circa 9 miliardi della Germania.

Ci domandiamo, quindi, se una efficace riforma dei servizi per il lavoro, che costituisce uno dei capisaldi della riforma del mercato del lavoro italiano, possa essere, così come previsto nel Jobs Act,  attuata a “costo zero”!!!!

Da ultimo, ma non ultimo, anzi è forse il tema più cogente dal punto di vista sindacale, l’idea dell’attuale Governo, di continuare ad emulare la maggior parte dei Paesi Europei, attraverso l’introduzione di un “salario minimo” stabilito per legge. In Germania verrà introdotto dal 1 gennaio del prossimo anno ed hanno fissato in 8,50 euro tale salario. Questo già sta creando nel dibattito tedesco non poche perplessità anche se si tratta, comunque, di un passo avanti in termini di tutele salariali. .

La Germania, infatti, come l’Italia, è uno Stato dalla consolidata contrattazione collettiva. E’ questa che da sempre stabilisce in base alle esigenze di ogni settore, i minimi retributivi dei lavoratori.

Istituire un salario minimo per legge, significherebbe non solo portare ad un appiattimento ed abbassamento delle retribuzioni dei lavoratori, ma, soprattutto, ad una riduzione di alcune tutele dei lavoratori che alla retribuzione contrattuale sono spesso ancorate.

Ed a chi intravede nel Sindacato (si veda tutta la querelle nata sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori) e nella contrattazione collettiva, a tutti i livelli, come il problema dei problemi della mancata crescita del nostro Paese, è forse il caso di ricordare che la mancata crescita di un Paese non dipende da chi contribuisce a dare tutele ai lavoratori, contribuendo con i contratti anche ad incentivare la produttività e la tenuta dell’occupazione (cassa integrazione e accordi difensivi),  ma da chi non solo intende diminuire le tutele, ma soprattutto, non creare i presupposti affinchè la crescita si verifichi: a partire dalla riduzione della estenuante burocrazia, l’ingente carico fiscale alle imprese (che ha raggiunto il 66%), la riduzione dell’elevata pressione fiscale sui lavoratori, pensionati e cittadini tutti, e soprattutto la messa in atto (come ha fatto la Germania) di investimenti industriali in settori che siano da volano alla ripresa economica del Paese. Naturalmente è bene ricordare che il cerchio in Germania si chiude con la valorizzazione degli strumenti di “partecipazione” dei lavoratori e del Sindacato alla vita delle imprese, questione, come noto, che sia da “sinistra” che da “ destra” non è stata accettata con il necessario coraggio.

Concludendo: imitare altri modelli europei può essere utile, ma non si può imitare solo ciò che ci conviene!!!

 

 

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