Per offrirti un servizio su misura nuovo.lavorowelfare.it utilizza cookies. Continuando la navigazione nel sito autorizzi l'uso dei cookies.  OK   Scopri di più

 
       
Di: Lavoro&Welfare di lunedì 30 luglio 2012 10:23

I BISOGNI E LA FINANZA

Pubblichiamo l'articolo di PIERLUIGI BERSANI apparso sul numero 2 di Giugno 2012 della Rivista LavoroWelfare - Per un nuovo riformismo.

                                     

Ogni riflessione sulla difesa, il rinnovamento e lo sviluppo del modello sociale europeo, e anche sulla sua sostenibilità, ha oggi un punto di partenza inevitabile: il paradosso storico per il quale la piattaforma economica più forte del mondo è diventata l’epicentro di una crisi che rischia di mettere in difficoltà il mondo intero, a causa dell’intreccio tra gli effetti provocati dalla conclusione di un ciclo trentennale dell’economia e la risposta delle destre che hanno governato negli ultimi anni diversi paesi d’Europa.

Una fase trentennale, il cui inizio possiamo datare negli anni Ottanta, sta finendo. Possiamo prendere come riferimento Ronald Reagan e la sua politica. In quel periodo si è affacciato un nuovo universo economico e poi, via via, anche culturale e mentale: da allora ha investito tutto l’Occidente e gran parte del mondo, ma adesso sta arrivando rapidamente a un punto di drammatica crisi.

In estrema sintesi si può ricordare che questa fase fu segnata da un grande salto tecnologico, l’apertura di un ciclo basato sull’ICT, che è paragonabile per dimensione ed effetti a quello della meccanica di fine Ottocento. E’ stata una novità sconvolgente e, come accade sempre in questi casi, ha messo in moto alcuni processi di cambiamento. I meccanismi della finanza di cui parliamo oggi sono nati in quel momento attorno all’esigenza di capitalizzare e di diffondere i portati di queste nuove tecnologie. Lì si inventarono meccanismi al servizio della loro pervasività. Ma poi quei meccanismi si sono imposti come prodotti autonomi della finanza, la quale si è lentamente trasformata, da strumento di sostegno e di servizio,  nel centro dell’economia, più importante della stessa produzione materiale e dei consumi.

Questa epoca è stata caratterizzata dal fatto che il denaro, per i ceti affluenti, è stato una commodity: per loro il denaro lo si è trovato sempre, fondamentalmente attraverso il debito, in vista di una crescita di valore degli investimenti che si stimava senza fine e che, invece, si è rivelata fittizia. Nello stesso tempo, questo processo ha messo in moto  un ampliamento colossale della disuguaglianza. Siamo arrivati al punto in cui il 2 per cento della popolazione degli Stati Uniti possiede la metà della ricchezza. Subito dopo, nella classifica della disuguaglianza, viene l’Italia.

Tutti questi fenomeni sono stati accompagnati e sostenuti dalla creazione di un senso comune, da gerarchie di valori: ricchezza, individualismo, tutta una grande retorica delle opportunità. Le opportunità piacciono anche a noi, ma non sono l’unica cosa che conta, perché sappiamo bene che se non ci sono meccanismi di uguaglianza, redistribuzione e di difesa dei più deboli le opportunità riguardano un numero troppo esiguo di cittadini.

In questo contesto, la sfera pubblica è stata relegata, nell’immaginario collettivo, al ruolo dell’inefficienza, dell’incrostazione, del peso. Il mercato stabilisce che cosa funziona e che cosa è buono. Solo che il mercato non misura la produzione che vince nel confronto con la concorrenza: pensa alla cosiddetta creazione di valore, cioè a quello che la finanza riesce a vendere e a guadagnare, moltiplicando il debito. Da tutto questo è nata una bolla micidiale, che poi è esplosa.

 

Effetto frullatore

Un tale processo ha avuto l’effetto di un frullatore, mettendo in difficoltà l’Occidente sviluppato, che sta perdendo peso a favore dell’Est e del Sud, e ovviamente anche i suoi cittadini, che stanno perdendo reddito, garanzie, lavoro, potere, prospettive.

In Europa, tutto questo ha provocato prima la vittoria delle destre, che hanno puntato tutto sulla paura, il ripiegamento, l’egoismo del più forte, e oggi una risposta, sempre delle destre al governo, che rischia di provocare un avvitamento e una recessione drammatici: la bolla speculativa è scoppiata, la crisi ha coinvolto il mercato e le banche e ha poi raggiunto l’economia reale; i debiti privati si sono trasformati in debiti pubblici; i mercati finanziari appena salvati con i denari di Stato si sono scagliati contro i debiti sovrani, resistendo all’introduzione di regole prudenziali e continuando a speculare, anche a costo di riprodurre gli errori appena compiuti. Eppure, si pensa di poter superare la crisi semplicemente con una stretta nei conti di questo o quel paese, con un taglio dei diritti o delle prestazioni dello stato sociale.

Certo, vi sono squilibri da correggere. E sono stati compiuti anche errori economici gravi. Basti pensare al comportamento dei governi di destra in Grecia o al governo del centrodestra in Italia. Ma l’idea di poter dividere l’Europa in buoni e cattivi sta diventando, in un passaggio di fase storica come quello che stiamo vivendo, un disastro per tutti. Pensare che qualcuno si salvi da solo è sbagliato. Mettere in comune politiche e strumenti nuovi è la ricetta alla quale i progressisti europei, a cominciare dagli italiani, stanno lavorando da tempo e che con la vittoria di François Hollande in Francia ha più forza; è necessario avviare in tempi brevi una nuova politica, che riguardi la disciplina da assumere in forme credibili, ma anche solide e indiscutibili barriere in difesa dell’euro, interventi per abbattere l’extra debito, strumenti comuni per gli investimenti e la crescita, il coordinamento delle politiche economiche.
Queste proposte che i progressisti hanno deciso di proporre in Europa sono considerate razionali e positive dalla maggior parte degli economisti e da molti osservatori, ma stentano a farsi strada. Io non credo che chi ostacola questo progetto non sappia di poterne ricevere un danno. Penso invece che in tutti questi anni sia cambiato qualcosa nella testa della gente, si sia radicato qualcosa in grandi correnti di opinione e quindi nella politica; credo che si sia sedimentata una ideologia durissima da scalfire. La banalizzerei così: in economia i mercati hanno sempre ragione. In politica ha ragione chi prova a salvarsi da solo perché si considera migliore di altri, un paese rispetto ad un altro, un territorio rispetto ad un altro. Lo stesso vale per le corporazioni o per gli individui. Le destre hanno vinto sulla base di un tale ragionamento. E adesso, anche se hanno fallito alla prova dei risultati, il ricatto populista che le condiziona è sempre vivo e vegeto. Quell’umore populista vive ancora ovunque, ora sovralimentato anche dall’acuirsi della crisi, che in alcuni paesi si sta trasformando in un dramma sociale. Vive in Finlandia, in Ungheria, in Francia con Le Pen, in Germania, in Grecia, e ovviamente anche in Italia.

Per queste ragioni la partita è drammaticamente aperta in Europa e in Occidente e non si può affidarla solo alle riunioni a Bruxelles. C’è una battaglia politica, culturale, ideologica da fare. Bisogna accumulare risorse politiche per il rilancio dell’Europa e per battere la destra populista. Senza questo, sarà sempre possibile che un tedesco accetti consapevolmente di rimetterci pur di non rischiare di dare un euro a un italiano indisciplinato o a un greco. Ecco allora la ragione per la quale abbiamo lavorato tanto alla costruzione di una piattaforma dei progressisti europei che sconfigga conservatori e populisti. E anche la ragione per la quale in Italia lavoriamo da tempo - noi democratici - per creare le condizioni di una ricostruzione civile, sociale e democratica del paese.

 

Europa forza gentile

E’ in questo contesto che va collocato ogni ragionamento sul welfare, sulla rivendicazione e sul progetto di un modello che, prendendo a prestito il titolo di un libro di Tommaso Padoa Schioppa, uno dei grandi tecnici che il centrosinistra ha portato al governo del paese, potremmo definire come il modello dell’”Europa, forza gentile”. Per la semplice ragione che senza un investimento nell’Europa politica, come dimostra anche il fallimento degli accordi di Lisbona che si basavano solo su obiettivi e politiche nazionali, non è possibile parlare di welfare europeo.

L’idea di fondo che ci caratterizza nella prospettiva per il futuro è di avviare un ciclo di riforme capaci di innestare una nuova fase universalistica dei sistemi di welfare, dove in via di principio non c’è né povero né ricco. E non solo per un motivo di giustizia sociale, che pure è una delle spinte fondamentali della passione per una buona politica, ma anche per una ragione economica: le disuguaglianze crescenti nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni, le drammatiche condizioni in cui vivono i ceti meno abbienti, i lavoratori senza occupazione o con occupazioni precarie e mal pagate, le famiglie con persone non autosufficienti, tutto questo, oltre che essere sommamente ingiusto, frena lo sviluppo. Senza investimenti, senza dare un po’ di lavoro, senza una migliore distribuzione del reddito e senza un welfare efficace, l’economia rischia di arrancare e la sofferenza sociale fa crescere il rischio di risposte involutive dal punto di vista civile e politico.

Ma se vogliamo non solo salvare ma anche aprire una nuova fase universalistica dei sistemi di welfare, allora dobbiamo prima di tutto rendere qualificato, efficiente e sostenibile l’universalismo che c’è. E nello stesso tempo mettere al centro della riscossa del nostro paese il lavoro, come detta la Costituzione, contro le resistenze corporative e i privilegi. Perché il lavoro non è solo produzione, ma anche rete di relazioni, dimensione psicologica, progetto e speranza: è la parte di possibilità che ciascuno di noi ha di trasformare il mondo in cui vive.

Da questo punto di vista noi dobbiamo guardare al futuro con gli occhi delle giovani generazioni. Ricordiamolo, anche quando pensiamo alla sostenibilità delle forme di welfare universalistico: se la nostra generazione non sarà capace di ridurre il debito e di innescare una nuova dinamica di sviluppo, priveremo i giovani di tante chances. Ridurre il debito e riattivare la crescita: questo devono i padri ai figli. Togliere i diritti ai padri, come troppo spesso è stato teorizzato, invece non serve affatto a darne di più ai figli. Lo dimostrano gli innumerevoli «garantiti» che hanno perso il lavoro. Su questi temi si è discusso a lungo e il Pd ha anche ingaggiato una battaglia, dicendo sì alle riforme per allargare le possibilità di lavoro e le coperture dei giovani, per ridurre la precarietà e anche per rendere flessibile ed efficiente il mercato del lavoro, ma senza intaccare i diritti e i fondamenti di un rapporto di civiltà. Sull’articolo 18, tema che nella riforma delle regole non abbiamo voluto sollevare noi, noi abbiamo garantito la riforma, ma abbiamo bloccato l’idea che un posto di lavoro possa essere meramente indennizzabile.

Non si può riformare il welfare con gli slogan. Lo abbiamo detto, lo diciamo e continueremo a praticarlo, quando toccherà a noi. Sulla riforma della previdenza la nostra linea è stata chiara: abbiamo detto sì all’allungamento della vita lavorativa, in collegamento con l’innalzamento delle speranze di vita. Ma avevamo proposto un meccanismo di flessibilità che avrebbe impedito il formarsi di un dramma sociale come quello degli “esodati”, donne e uomini che dopo una vita di lavoro oggi si trovano senza pensione, senza lavoro, senza sostegni. Avevamo proposto di rendere possibile il pensionamento tra i 62 ed i 70 o 71 anni di età, con una pensione più bassa o più alta in relazione agli anni di lavoro. Le aziende avrebbero avuto in questo modo anche la possibilità di realizzare piani di ristrutturazione offrendo ai propri dipendenti le risorse per compensare le minori entrate previste.

La linea scelta dal governo Monti è stata diversa. Certo, non bisogna dimenticare mai che il governo Monti si è trovato a dover fronteggiare in pochi giorni una burrasca finanziaria che avrebbe potuto travolgere l’Italia e portare il paese verso una situazione simile a quella della Grecia. Tuttavia, considerata anche l’esperienza che il centrosinistra e diversi suoi rappresentanti hanno in questo settore, se il governo ci avesse ascoltati ora non avremmo il problema degli “esodati”, nodo sociale che va assolutamente affrontato e sciolto.

Oggi ci troviamo dunque con un sistema previdenziale sostenibile, ma con un problema urgente aperto e con un problema di prospettiva che dovrà essere affrontato: è stata garantita la pensione futura dei giovani, ma bisognerà lavorare ancora per trovare gli strumenti necessari per rafforzare l’entità dei trattamenti futuri.

Tutele e diritto di cittadinanza

Lavoro, previdenza, assistenza, sanità: il sistema delle tutele vitali va collegato ai diritti di cittadinanza e non più soltanto a una pregressa attività di lavoro. Va introdotto il principio della «fiscalità negativa», in modo che le fasce più povere, quelle che non arrivano neppure alla soglia fiscale minima, possano ricevere un più equo sostegno. La scelta, insomma, deve essere sempre più universalista per sottrarre al mercato ciò che giudichiamo riguardare i bisogni fondamentali delle persone. Del resto questo è anche il principio che ispira il servizio sanitario nazionale. E il principio va garantito nella pratica, non solo a parole. Ciò vuol dire garantire coperture certe ai costi ed evitare gli sprechi. Non è facile nel settore della sanità dove ogni giorno una nuova conquista, un nuovo medicinale, una nuova macchina sono in grado di fornire una cura migliore: saggezza vorrebbe che a ogni più moderna e efficace prestazione assicurata dal servizio sanitario venisse esclusa dalla gratuità una vecchia prestazione divenuta meno essenziale, mettendola a pagamento oppure affidandola alla sussidiarietà.

Il pubblico deve garantire la rete dei servizi sociali, la programmazione, gli standard, le verifiche. Poi, la gestione dei vari punti della rete può essere affidata al pubblico, al privato, al privato-sociale e, in limitati casi, alla società mista.

Non è l’idea di un pubblico che si restringe per ragioni di economicità. Semmai è l’idea di un pubblico che si allarga e coinvolge maggiormente la società nelle sue diverse espressioni. La sussidiarietà può essere una chiave moderna per affrontare la complessità. A una condizione: che lo Stato non la invochi come supplenza perché è incapace di assolvere ai suoi compiti fondamentali. La supplenza sarebbe nociva non meno della cultura statalista che afferma l’esclusività dello Stato.

La sussidiarietà è un principio di solidarietà e di cooperazione sociale. La sinistra in Italia è nata a fine Ottocento con la sussidiarietà e l’autorganizzazione: lo statalismo è arrivato dopo. Peraltro la nostra è stata sempre una sussidiarietà che ha rivendicato diritti comuni: non a caso i primi asili pubblici sono sorti proprio laddove c’era la pratica del badantato delle corti bracciantili. Ora questo principio va coniugato con la programmazione. Perché bisogna evitare che la sussidiarietà sfoci nel privatismo e diventi un modo per consentire ai ricchi di arrangiarsi da soli.

La programmazione richiede non una centralizzazione, ma un rilancio delle politiche locali: solo a livello locale si può avere il quadro dei bisogni effettivi e ottenere il mix migliore delle risposte. Un privato non può fare una grande clinica di neurochirurgia vicino a una struttura pubblica efficiente in quel settore, ma la deve impiantare dove serve, se vuole una convenzione pubblica, altrimenti alla lunga si riduce lo spettro dei servizi per il cittadino e a pagare alla fine è sempre Pantalone.

Un impegno per cambiare in Europa; un impegno per cambiare in Italia; un impegno per cambiare e migliorare nelle nostre regioni, nei nostri comuni: la prospettiva di un rinnovamento e di un rilancio del modello sociale europeo sta in un cammino civile, economico e democratico che i progressisti devono essere in grado di mettere in campo per sconfiggere la politica dell’egoismo, del ripiegamento, del pensare solo a se stessi. In poche parole, per sconfiggere la politica delle destre e del populismo che in questi anni ha travolto l’Europa.

 

Condividi

 

Per sostenere la nostra associazione è possibile effettuare una donazione:

C/C Postale N° 001025145325
Associazione Lavoro&Welfare
Codice IBAN: IT81W0760103200001025145325

Via Gaspare Spontini, 22
00198 Roma

Tel. 06 67606729

lavorowelfare@gmail.com