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Di: Lavoro&Welfare di giovedì 20 febbraio 2014 12:50

Redditi da pensione e presunte misure di equità

di Gianni  Geroldi  1 Febbraio 2014

Pubblichiamo un'interessante analisi del prof. Gianni Geroldi, in risposta alle tesi di Boeri e Patriarca sul tema della previdenza

 

In due recenti articoli comparsi sul sito “La voce.info”, il primo a firma di Fabrizio e Stefano Patriarca e il secondo degli stessi autori e di Tito Boeri[1], sono state affrontate questioni che riguardano i redditi da pensione, le diseguaglianze della loro distribuzione e i possibili rimedi che, oltre a rappresentare misure di equità, avrebbero anche un effetto di risparmio utilizzabile a sostegno delle posizioni reddituali più deboli. Occorre premettere che i due articoli vanno letti insieme perché il primo si concentra sulle ragioni delle disuguaglianze del sistema pensionistico italiano, mentre il secondo propone l’adozione di misure che, nella visione degli autori, rimedierebbero almeno in parte alle iniquità.

Nel primo articolo sono dunque elencati i fattori che gli autori ritengono essere all’origine della “iniquità distributiva”. In particolare:


  • la misura dell’iniquità è data dal rapporto tra prestazioni correnti e contribuzioni cumulate durante la carriera lavorativa.

  • il campione utilizzato per l’analisi quantitativa si basa su 486 mila pensioni di anzianità liquidate nel periodo 2008-2012. Con un ricalcalo della carriera (sul punto il testo è poco chiaro; sembrerebbe che, partendo dalla retribuzione finale – ricavata da un’analisi empirica longitudinale? il profilo reddituale sia ottenuto all’inverso, scontando annualmente il valore in base al tasso medio nominale di crescita dei salari), viene determinato il livello di pensione che si sarebbe ottenuto con un sistema interamente contributivo.

  • la differenza tra la pensione effettivamente liquidata e la pensione calcolata a contributivo costituisce la misura “assoluta” dello squilibrio. Il rapporto tra questa differenza e la pensione effettiva rappresenta invece il valore “relativo” del disequilibrio.

    • sulla base di questi risultati, gli autori “scoprono” che:




-        tutte le pensioni maturate prima dei 60 anni (cioè la quasi totalità delle pensioni di anzianità) contengono una percentuale di squilibrio

-        lo squilibrio diminuisce all’aumentare dell’età in cui la pensione è stata liquidata

-        in termini relativi, lo squilibrio aumenta all’aumentare dell’importo entro valori inferiori al “tetto” di retribuzione per cui valeva il coefficiente di rendimento pieno (2%) applicato nel calcolo retributivo delle pensioni. Oltre tale tetto, lo squilibrio diminuisce perché nel calcolo delle pensioni sono stati applicati coefficienti di rendimento progressivamente più bassi.

Sul quadro descritto in questo articolo e sui risultati ottenuti, si possono fare le seguenti considerazioni:

  • l’eterogeneità dei “rendimenti” impliciti nei contributi versati è un fatto noto da prima che si facesse la riforma Dini. In proposito, si possono ricordare i lavori di Sandro Gronchi (1995) e della Ragioneria Generale dello Stato

  • tra gli obiettivi dichiarati della riforma Dini c’erano:


-        l’armonizzazione dei regimi pensionistici (equità orizzontale) per rimediare alle difformità normative che premiavano le categorie privilegiate;

-        il progressivo innalzamento dell’età effettiva di pensionamento (con un vincolo di età anagrafica minima per le pensioni di anzianità e l’incentivo dato dai coefficienti a posticipare il ritiro di vecchiaia), nella consapevolezza che una pensione interamente o anche parzialmente calcolata a retributivo produceva l’effetto di correlare negativamente il rendimento all’età di pensionamento

-        un metodo di calcolo che tendenzialmente avrebbe prodotto un equilibrio tra entrate contributive e uscite per prestazioni (equità intergenerazionale), salvo eventuali prestazioni assistenziali da finanziare con entrate fiscali, e la stabilizzazione del rapporto tra spesa pensionistica e PIL (sostenibilità finanziaria nel lungo periodo).

 

L’intervallo temporale in cui la nuova normativa avrebbe ottenuto questi obiettivi, legata ai tempi di andata a regime del sistema di calcolo contributivo, è la parte  più dibattuta della riforma Dini che ha salvaguardato le pensioni in essere, la parte di carriera lavorativa già effettuata (pro-rata) e il resto della carriera per una parte consistente di contribuenti attivi (chi aveva maturato 18 anni di contribuzione alla fine del 1995).

E’ da notare tutti gli interventi successivi alla riforma Dini (Prodi, Maroni, Damiano, Sacconi, Fornero) non hanno mai messo in discussione i principali obiettivi e il sistema di calcolo, ma hanno puntato a contenere gli effetti sulla spesa, aumentando i requisiti di età per il pensionamento, congelando parzialmente le indicizzazioni e, da ultimo, applicando il calcolo retributivo alla totalità dei contribuenti. In pochi casi (Berlusconi e Damiano), sono state adottate misure di carattere “solidaristico”, senza ridistribuzione interna al sistema pensionistico ma con risorse di provenienza fiscale. Per le valutazioni sugli aspetti ridistributivi, è però opportuno considerare anche il contenuto del secondo articolo.

 

Il secondo articolo in esame, firmato anche da Tito Boeri, contiene quella che gli autori pensano di proporre come misura che, agendo esclusivamente sulle pensioni lorde in essere, rimedierebbe alle “iniquità” di cui si è detto in precedenza. La misura si sostanzia in un prelievo alla fonte sulle pensioni erogate, la cui natura non è facilmente definibile ma che, in prima approssimazione, può essere assimilata a una manovra fiscale. Essa si attuerebbe nel modo seguente:

  • con  una decurtazione dei redditi pensionistici lordi basata su due principi, ovvero a) si tagliano solo i trattamenti al di sopra di un certo importo; b) il taglio si applica alla parte di prestazione che non è giustificabile alla luce dei contributi versati

  • il ricalcolo a contributivo dei trattamenti pensionistici derivati dal metodo retributivo, sia quelli in essere, cioè le pensioni attualmente erogate, sia (almeno si presume) le future pensioni per la parte a retributivo, andrebbe effettuato seguendo le indicazioni derivanti dall’applicazione delle norme relative all’esercizio del “diritto di opzione”, inizialmente previsto dall’art. 1, comma 3 della legge 335/95 (legge Dini). Le modalità piuttosto complesse, che richiedono una ricostruzione in parte puntuale e in parte forfetaria della carriera retributiva e dei contributi versati, sono riportate nella circolare INPS n. 181 dell’11 ottobre 2001.

  • per introdurre un ulteriore principio equitativo, nella simulazione effettuata nell’articolo, vengono applicate aliquote differenziate sulle quote dei trattamenti eccedenti il valore della pensione a contributivo, salvaguardando le pensioni lorde inferiori a 2 mila euro. Più precisamente si prevede:


- 20 per cento dello squilibrio su pensioni tra 2mila e 3 mila euro

- 30 per cento dello squilibrio su pensioni tra 3 mila e 5 mila

- 50 per cento dello squilibrio su pensioni superiori 5 mila

 

La simulazione presentata nell’articolo indica i seguenti risultati:

  • il gettito complessivo del taglio sarebbe pari a 4,2 miliardi di euro (si presume annui), di cui più di 3,7 miliardi a carico del lavoro dipendente e circa 444 milioni a carico degli autonomi

  • le percentuali di pensionati colpiti dal prelievo sarebbero molto diverse per i dipendenti (18,6% del totale) e per gli autonomi (3,3% del totale)

  • l’incidenza percentuale del prelievo sull’ammontare delle pensioni erogate – assimilabile a un’aggiunta di pressione fiscale media lorda sui redditi - sarebbe pari nel complesso a circa il 6,2% (5,8% i dipendenti e 12,9% gli autonomi), mentre per le tre fasce di pensione percosse dal taglio le percentuali medie di incidenza sarebbero pari al 5,5% (5,1% dipendenti; 11,6% autonomi) nello scaglione tra 2 e 3 mila euro, al 6,6% (6,1% dipendenti; 17,5% autonomi) in quello tra 3 e 5 mila euro e, infine, dell’8,24% (8,2% dipendenti; 17,6% autonomi)sopra i 5 mila euro.


 

Come in precedenza, sui risultati di questa simulazione si possono fare diverse annotazioni. In particolare:

  • per quanto riguarda il risultato in termini aggregati, la simulazione sembra limitarsi al gettito lordo. Se si considera che il prelievo sulle pensioni si traduce in una contrazione del reddito assoggettabile al prelievo fiscale, ipotizzando un’aliquota media del 33%, il risultato complessivo darebbe un gettito netto leggermente superiore a 2,75 miliardi  di euro (contro i 4,2 ipotizzati nella simulazione)

  • i valori utilizzati per determinare i diversi scaglioni di prelievo sono rappresentati da pensioni lorde su cui agisce il prelievo fiscale. Se si fa un’ipotesi reale di un reddito pari alla prima soglia ipotizzata nella simulazione di 2 mila euro lordi mensili e si applicano le imposte prima e dopo il prelievo sulla pensione calcolato come percentuale media dello scaglione (assumendo un’abitazione di proprietà con rendita di 400 euro e spese detraibili per 500 euro annui), si ottiene come risultato che il reddito netto mensile scende da 1.583 euro a 1.512 euro, mentre la pressione fiscale misurata dall’aliquota media sale dal 20,8% al 24,4%. Si rinvia a chi legge questa nota la valutazione se sia “equo e giusto” aumentare di 3,6 punti percentuali la pressione fiscale su un numero molto ampio di persone (stimabile in circa due milioni di operai e impiegati in larga parte pensionati di anzianità dei settori industriali) che attualmente dispongono di poco più di millecinquecento euro al mese.

  • se si considera una situazione reddituale elevata di una pensione pari a 100 mila euro lordi l’anno, applicando sempre le percentuali medie di prelievo sullo scaglione (con l’ipotesi di un’abitazione di proprietà con rendita pari a 1.000 euro e spese detraibili per 1.200 euro) il netto mensile scenderebbe da 4.927 a 4.568 euro (-7,3%), mentre la pressione fiscale (aliquota media) salirebbe dal 35,9% al 40,6%.


Anche in questo caso, nonostante i redditi mensili restino relativamente elevati, andrebbero considerati due aspetti. Primo, se sia comunque “equo e giusto” aumentare di quasi quattro punti percentuali il prelievo su un reddito da pensione, discriminando la fonte rispetto a altri redditi, da lavoro, impresa, ma anche dai redditi finanziari. Chiunque potrebbe infatti sostenere che lo strumento più idoneo ed equo per aumentare il gettito complessivo sia una modifica delle aliquote fiscali per gli scaglioni più elevati di imposta. Utilizzando le basi imponibili dell’Agenzia delle Entrate, infatti, se si aumentasse di un punto l’aliquota dello scaglione tra 55 e 75 mila euro, passando da 41 a 42% e di due punti (da 43 a 45%) l’aliquota sopra i 75 mila euro, si avrebbe un gettito superiore ai 2,6 miliardi di euro, simile a quello ipotizzato nella simulazione con il prelievo sulle pensioni, con due sostanziali differenze: una, che non vi sarebbe impatto sulle pensioni lorde fino a circa 4.200 euro lordi mensili; l’altra che l’effetto sulla pressione fiscale (aliquota media) di un reddito di 100 mila euro annui sarebbe limitato a un incremento dello 0,7%, molto meno rilevante del 4,7% emerso nell’ipotesi prima considerata. L’uso della leva fiscale avrebbe, inoltre, il vantaggio di non sollevare problemi di “costituzionalità” nella forma di prelievo, già emersi per precedenti misure riguardanti prelievi cosiddetti “di solidarietà”.

Un secondo aspetto da considerare nel caso in cui si volesse applicare un prelievo corposo alle pensioni di maggiore importo, riguarda il fatto che il loro valore reale ha già avuto una progressiva erosione dovuta al parziale congelamento dell’indicizzazione, i cui effetti – che incidono permanentemente sul valore reale dei trattamenti - sono tanto maggiori quanto più è lungo il periodo intercorso dal momento del pensionamento.

 

Per concludere questa rapida disamina delle proposte formulate nei due articoli, soprattutto in merito alle presunte finalità equitative e alla loro pratica attuabilità, occorre anche ricordare che:

  • sebbene nel tempo la posizione dei giudici costituzionali abbia significativamente esteso il principio di utilità collettiva delle manovre di politica economica, accettando anche misure che hanno messo in discussione le regole per la maturazione delle pensioni in essere, il principio dei diritti acquisiti è rimasto sostanzialmente applicato alla parte di carriera contributiva percorsa e, a maggior ragione, alle pensioni in essere. Per  quest’ultimo caso, va osservato che, anche nel pieno della crisi di questi ultimi anni, solo un paese (Grecia) in tutta la UE ha scelto di intervenire con tagli significativi sui trattamenti pensionistici in essere

  • nella simulazione, i criteri per individuare gli “squilibri” appaiono facilmente confutabili alla luce di diversi elementi, tra cui: a) l’opinabilità del metodo forfetario di ricostruzione della carriera contributiva (accettabile per una opzione ma difficilmente applicabile con una norma precettiva); b) la diversità di situazioni che hanno determinato l’ammontare dei trattamenti (es. le riduzioni imposte da Ciampi alle pensioni baby rispetto all’anzianità minima dei 35 anni a partire dal 1993 - art.11 della Legge n.537 del 28 dicembre 1993; o i diversi decreti legislativi di riordino dei regimi speciali, ecc.); c) il fatto che le scelte adottate da un lavoratore nella parte finale della propria carriera in alcuni casi hanno risposto a criteri di convenienza (ritiro con i requisiti minimi e continuazione dell’attività spesso in forma non regolare) ma, in molti altri casi, i ritiri sono stati resi necessari dalle vicende economiche negative delle imprese o dei settori di appartenenza (vedi norme su mobilità lunga e prepensionamento), che hanno caratterizzato diverse fasi dell’economia italiana, a cominciare dalle ristrutturazioni degli anni settanta.


 







[1] F. Patriarca e S. Patriarca, Lo squilibrio nelle pensioni di anzianità, “La voce.info”,  3 dicembre 2013; T. Boeri, F. Patriarca e S. Patriarca, Pensioni: l’equità possibile, “La voce.info”,  14 gennaio 2014

 



 


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