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Di: Lavoro&Welfare di giovedì 16 gennaio 2014 13:39

Welfare: femminile singolare.

di Silvia Del Vecchio

Il sistema di welfare italiano è in crisi. Da un lato, la contrazione delle risorse dedicate e l’irrigidimento delle politiche economiche a livello europeo, dall’altro, l’emergere di nuovi bisogni e soggetti hanno fatto luce sulla difficoltà nazionale e politica di rinnovare la prospettiva sociale e gli strumenti con cui creare un nuovo welfare. I fattori economici costituiscono una parte del problema, dal momento che anche in questa fase sembra persistere una capacità di spesa pubblica e privata importante. Semmai, uno dei nodi centrali è culturale. Di fatto è da molti anni che sentiamo dire che il welfare va riformato e per farlo è necessario ripensare l’impianto del modello sociale nostrano, a partire da una riflessione concreta sul ruolo pubblico e privato delle donne. Gli atteggiamenti politici rispetto a questa esigenza sono stati diversi e contraddittori, contribuendo ad approfondire le ineguaglianze già presenti. E’ stata rinviata la presa d’atto dei cambiamenti che hanno trasformato il paese, non oggi o domani, ma ieri quando l’organizzazione ideale e politica del male breadwinner model esprimeva già chiari segni di inadeguatezza. In realtà, anche nel suo massimo splendore il cosiddetto primo welfare[1] aveva dimostrato bassa capacità di risposta alle esigenze provenienti dal mondo del lavoro, dalla società, dai territori attraverso una selezione sociale e di genere molto netta e discriminante. Si è preferito rovesciare l’ottica sul privato, in particolare sulle famiglie, in maniera volontaristica e non strutturata, irrobustendo i tradizionali corporativismi e delegando loro tutta la sapienza e la forza (economica e culturale) di disporre beni e servizi. A ciò aggiungerei la diffidenza verso la cosa pubblica quale una delle ragioni che ha indotto a procrastinare un confronto attivo tra diversi soggetti al fine di ristabilire delle nuove regole, o integrare le già esistenti, per rimettere in circolo un paradigma sociale alternativo a quello edificato nel Novecento. In sostanza negli ultimi venti anni abbiamo assistito a uno spostamento del problema, eludendo la possibilità di scardinare i fattori di arretratezza e incompiutezza del sistema made in Italy.


Questioni rimaste aperte che oggi s’intrecciano con le grandi trasformazioni che investono l’Italia (ristrutturazione industriale, finanziarizzazione dell’economia pubblica e privata, smantellamento delle politiche sociali, femminilizzazione del processi produttivi, etnicizzazione del mondo del lavoro) ponendoci nuovi quesiti a cui ancora non sappiamo dare una definizione precisa e condivisa: quale futuro vogliamo? A quale welfare pensiamo quando diciamo più giustizia sociale? Quali sono i soggetti sociali e politici con i quali costruirlo oggi? Vale se sono donna? Anche se single o convivente? E se sono straniera?


Il genere non è tuttora parte essenziale di una visione strategica delle politiche del lavoro e del welfare, non è percepito e né espresso come fattore determinante nel ciclo di identificazione di priorità, obiettivi e direttrici operative. Le differenze all’interno della società sono avvertite come appendici variabili e secondarie che possono erodere alcuni equilibri giudicati universali. Eppure, se esaminiamo i dati relativi all’occupazione femminile degli ultimi vent’anni ricaviamo una visione positiva del mondo del lavoro grazie alla costante crescita della presenza delle donne [nel 2008 le lavoratrici sono 9 milioni 341 mila, 1 milione 694 mila occupate in più rispetto al 1993, Altieri, Dota, Ferrucci, Ires 2008]. Un fattore di svolta importante per lo sviluppo dell’economia italiana poiché sono state le donne ad alimentare la crescita del mercato del lavoro, sebbene tutto ciò non abbia determinato una modifica dei fattori di disparità. L’altra faccia della medaglia sono state proprio le condizioni materiali che hanno configurato l’apporto delle lavoratrici: differenziali retributivi, posizioni marginali, spiccata atipicità dei rapporti di lavoro, bassa presenza nella formazione qualificata, difficoltà di rientro nel mondo del lavoro dopo la maternità, infrastrutture sociali inadeguate, aumento delle inattive [48,5%, Istat 2012]. Nonostante le sollecitazioni europee a una definizione di politiche di gender mainstreaming efficaci, la risposta della politica italiana è stata discontinua e debole. Il dibattito nazionale si è incentrato specificamente sul tema della conciliazione benché ciò non abbia significato il superamento della “doppia presenza” delle donne, il rapporto tra produzione e riproduzione sociale, ossia la condizione di sospensione tra l’essere sociale e l’essere madre, tra il lavoro riconosciuto, seppur precario e poco remunerato, e il lavoro di cura, il welfare fai da te, espressione di un’autosufficienza “arrangiata” e commisurata sulle potenzialità individuali piuttosto che sull’opportunità di accesso ai diritti. La situazione è mutata anche a livello europeo dove si è registrata una riduzione importante delle politiche comunitarie di riferimento. La diversa riallocazione delle risorse inizialmente destinate alle politiche di genere ha depotenziato gli strumenti legislativi e politici di sostegno alla strategia di parità, producendo una frattura profonda nel tessuto sociale europeo. Inoltre, è bene ricordare che non è tutto oro quel che è Europa, soprattutto se parliamo di pensioni, visto che la media del gap pensionistico nei paesi dell’unione è pari al 39%[2].


La fase di transizione che stiamo attraversando ha fatto il resto, ha ampliato notevolmente le condizioni di malessere acuendo il processo di scomposizione sociale e di genere già in atto – (disoccupazione 11,5%, disoccupazione giovanile 35,3%, disoccupazione di lunga durata 5,6%) - all’interno di uno scenario nazionale di recessione (prodotto lordo -2,4%; domanda interna -3,2%; consumi -1,6%; potere d'acquisto delle famiglie -4,8%, Istat 2013]. Le politiche di smantellamento dello stato sociale e il crescente depauperamento della famiglie stanno producendo un corto circuito importante dentro l’ambito domestico. Lo testimonia la ripresa dell’occupazione femminile dal 2012 [+110mila unità rispetto al 2011, Istat], un dato in controtendenza che si deve in particolare all’inasprimento della situazione maschile. Anche se altri fattori hanno agito in tal senso: 1) il ridimensionamento della percentuale delle donne inattive; 2) la crescita delle lavoratrici straniere; 3) l’incremento delle donne breadwinner, cioè le uniche portatrici di reddito in famiglia. Tutto ciò rientra “nelle nuove strategie famigliari per affrontare le ristrettezze economiche indotte dalla crisi” [Istat 2013], e tutto ciò avviene senza soluzione di continuità con la tradizionale divisione di genere delle retribuzioni e delle possibilità di accesso a un lavoro qualificato.


Sarà per questo che riflettendo sul welfare mi accorgo che la questione non si esaurisce semplicemente ragionando di ticket sanitari oppure di asili per l’infanzia, o almeno non solo di questo. Non si tratta di risorse da erogare a qualche progetto per le pari opportunità, anche perché monetizzare la richiesta di welfare non è risolutivo, è fondamentale saper costruire una rete di servizi efficiente e adeguata ai bisogni espressi dalle persone e dal mondo del lavoro. C’è bisogno di ridefinire nuovi meccanismi d’integrazione al salario (estensione della platea sociale e di genere di riferimento), così come della valorizzazione delle forme di “welfare alternativo” già realizzate nel paese con una relazione pluralistica e continua, partecipata direttamente dai soggetti sociali e politici, italiani/e e stranieri/e, con investimenti finalizzati e coerenti. Costruire il welfare significa rimuovere culturalmente gli assiomi dell’attuale paradigma collettivo fatto di cerchi concentrici e familiari dove il centro è stato per tradizione il capofamiglia uomo (preferibilmente bianco e occidentale) e dipendente. Insomma, una griglia assai stringente nella quale le donne hanno rivestito il ruolo di outsiders. Credo che stato sociale non voglia più dire solo asili pubblici, anche perché il dirlo non sembra darne effettivamente atto, non voglia più dire coppia legittimata, non voglia più dire soltanto italiani e italiane. Il concetto di welfare non ha più un solo significato, semmai lo abbia avuto realmente. Ripensarne la struttura vuol dire ripartire da tutto questo, altrimenti risulterà difficile immaginare un modello attivo e partecipato se ancora siamo a discutere se l’italianità passa per lo ius sanguinis o lo ius soli, o se ci chiediamo se le coppie di fatto esistono, o se siamo europei solo quando guardiamo alla BCE. Forse, è il caso di ascoltare l’Europa soprattutto quando ci dice che è un’anomalia avere l’80/90% di obiettori di coscienza negli ospedali pubblici, o quando può indicarci la via per la realizzazione dei diritti civili e individuali, oppure quando investe sullo sviluppo sociale con un’ottica pluralista e interdipendente. In tal senso uno dei problemi fondamentali in questa fase di profondi mutamenti è il rapporto con il consolidato, con la tradizione, con la nostra proverbiale inerzia verso le espressioni altrui, - soprattutto se rappresentano tentativi di trasformazione dello status quo - , e il superamento delle resistenze al cambiamento che possono indurci a “pratiche di accontentamento[3].


Quale direzione intraprendere? E’ possibile riformare il lavoro e il welfare con una parità al ribasso? E’ possibile una modernità che non crei nuove forme di esclusione? Può esistere un welfare reale e pluralistico con le donne inattive o precarie e le dimissioni in bianco come lettera di benvenuta nel lavoro? E’ possibile uno sviluppo differente della produzione di ricchezza del paese?

E’ un percorso lungo e intenso quello che intravedo, ma nel frattempo possiamo procurarci delle bussole. Alcuni suggerimenti ci giungono dalla proposta politica della Costituente delle idee, specialmente quando traccia un sentiero di passaggio individuando dei snodi fondamentali: antiliberismo - libertà solidale - libertà delle donne. Ripartiamo da qui, da queste indicazioni per un paese migliore nel quale la libertà è la chiave di lettura del mutamento che vogliamo. Ripartiamo dal presente, dalle numerose esperienze economiche, culturali e sociali realizzate dalle donne: reti, associazioni, consorzi, consultori, centri antiviolenza, scuole di formazione. Realtà costituite dal basso sulla relazione fra sé e le/gli altre/i, sulla reciproca fiducia e responsabilità, sull’interscambio, sulla condivisione di pezzi del processo decisionale e fattivo. Ripartiamo con l’idea che non c’è un solo futuro e che lo sviluppo può esser visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani [Amartya Sen].










[1]Cfr. Primo Rapporto sul secondo welfare in Italia, a cura di F. Maino e M. Ferrera, 2013. Disponibile su website www.secondowelfare.it.




[2]Cfr. The Gender gap in Pensions in the EU; The impact of the economic crisis on the situation of women and men and on gender equality policies, in www.inGenere.it, 2013.




[3]Cfr. Leggere il percorso della parità: i meccanismi di resistenza, le strategie di opposizione. Intervista a Laura Balbo, in Rivista delle Politiche Sociali, pp.45-52, 2009.



 

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